Steatosi epatica o “fegato grasso”. In Italia ne soffre il 24% della popolazione tra i 18 e i 65 anni

La steatosi, o “fegato grasso”, è una condizione patologica determinata da un accumulo di trigliceridi nel fegato. Per definizione, si identifica istologicamente con un accumulo epatico di acidi grassi che oltrepassa il 5% del peso del fegato stesso. Tra le principali eziologie troviamo la dieta ricca di grassi (in particolare grassi insaturi di origine animale), il consumo cronico di alcol, malattie metaboliche come le dislipidemie o il diabete mellito ma anche cause iatrogene. Alcuni pazienti affrontano il riscontro di steatosi epatica come una patologia grave, da sottoporre rapidamente ad accertamenti specialistici, mentre ci sono ancora molti soggetti che banalizzano questo riscontro e lo ritengono assolutamente ininfluente sul loro stato di salute. I dati epidemiologici, tuttavia, non sono incoraggianti: la steatosi rappresenta infatti la patologia epatica più frequente nel mondo occidentale. In Italia, ad esempio, ne è affetto circa 1/4 della popolazione generale tra i 18 e i 65 anni. La tendenza si conferma anche nel resto dell’Europa e in America, dove la prevalenza della steatosi nella popolazione generale – in crescente aumento negli ultimi decenni – si assesta intorno al 24%.

Nei pazienti steatosici, la non rimozione dei fattori di rischio associati può determinare la progressione della malattia: inizialmente il fegato risponde all’accumulo di acidi grassi con un processo infiammatorio, che in un primo momento porta alla fibrosi (condizione reversibile, nota come steatoepatite), e successivamente può progredire fino alla cirrosi (condizione irreversibile) insieme alle complicanze ad essa correlate. Tra queste vi è anche l’epatocarcinoma (HCC): la trasformazione neoplastica, tuttavia, è spesso estremamente lenta se non associato ad altri fattori di rischio per malattia epatica (come abuso di alcol, epatiti virali, farmaci). In particolare, circa il 10% di pazienti con cirrosi correlata a steatoepatite sviluppa il tumore in 10-20 anni, con un’incidenza annuale di HCC in questi soggetti pari a circa 11 nuovi casi su 1.000 individui con steatoepatite.

L’esame gold standard per la diagnosi di steatosi è l’esame istologico. Oggigiorno esistono però diverse metodiche di imaging in grado di sostituire efficacemente la biopsia. In primo luogo, l’ecografia, una tecnica diagnostica di facile impiego, largamente disponibile sul territorio, che può identificare, con elevata sensibilità e specificità, segni indiretti di steatosi. Tale metodica risulta tuttavia “soggettiva”, vale a dire legata all’esperienza dell’operatore, e non è in grado di quantificare il livello di steatosi in modo accurato. Anche l’elastometria epatica e l’elastosonografia possono aggiungere informazioni diagnostiche complementari che riflettono l’evoluzione della steatosi in fibrosi. Contestualmente, anche alcuni valori ematochimici come il rialzo degli indici di citolisi epatica (AST e ALT) e del profilo metabolico (colesterolo totale, colesterolo LDL, trigliceridi e glicemia a digiuno) sono utili per rafforzare la diagnosi.

La steatosi deve essere dunque considerata una possibile patologia evolutiva a decorso lento, che non necessita di provvedimenti urgenti ma, allo stesso tempo, non può essere sottostimata. Negli ultimi tempi, numerosi studi sono usciti, e/o sono tutt’ora in fase di sperimentazione, su terapie mediche che possano favorire la regressione del quadro steatosico. Tuttavia, ad oggi, l’approccio terapeutico più efficace è rappresentato dalla dieta mediterranea a basso consumo di grassi insaturi, la completa astensione alcolica e la regolare attività fisica moderata quotidiana (150 minuti a settimana di camminata a passo moderato-veloce, secondo l’Oms). Sul lungo periodo, con questi semplici accorgimenti, è possibile ridurre gradualmente il grado di fibrosi e steatosi, evitando che la malattia prosegua verso una fase di irreversibilità.