
La steatosi epatica o l’accumulo di grasso nel fegato colpisce il 25-30% degli adulti. Si tratta di una condizione che può progredire provocando l’infiammazione del fegato, la steatoepatite non alcolica (NASH), che interessa il 2-3% della popolazione e che porta allo sviluppo di fibrosi, cirrosi e infine epatocarcinoma. Essenziale è una diagnosi tempestiva. “È una condizione asintomatica, almeno finché la situazione non è molto compromessa. Ecco perché chi ha il diabete o presenta obesità dovrebbe essere sottoposto a screening”, spiega Salvatore Petta, segretario dell’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (AISF). Per valutare lo stato di salute del fegato oggi si usano semplici test che combinano l’indice di massa corporea e valori del sangue, come le transaminasi e le piastrine. Per avere però la certezza che si tratti di steatoepatite si ricorre ancora alla biopsia, anche se studi recenti hanno dimostrato come nuovi test non invasivi possano identificare i soggetti più a rischio.
Sia la steatosi sia la steatoepatite possono però regredire: la riduzione del 7% del peso corporeo è sufficiente per innescare la regressione. E ulteriori speranze arrivano anche da nuovi farmaci: “Ci sono molte molecole in fase di sperimentazione che mirano a modificare i meccanismi di accumulo del grasso, dell’insulino-resistenza, dell’infiammazione e della fibrosi, ma servirà ancora del tempo prima che siano disponibili”, aggiunge Petta. A fare il punto su come affrontare un problema che può danneggiare irrimediabilmente quest’organo vitale sono stati medici, associazioni pazienti e istituzioni, in occasione del convegno “Dopo l’HCV, Le Nuove Emergenze per La Salute del Fegato”, promosso da Gilead Sciences. Il cosiddetto “fegato grasso” colpisce circa un adulto su quattro, un numero che cresce di pari passo con l’aumento di obesità e diabete. In Italia il 45% delle persone sopra i 18 anni pesa troppo ed è proprio a questo fenomeno che si lega l’aumento della steatosi epatica (NAFLD).