
Le coronaropatie e le arteriopatie sono quasi sempre causate da aterosclerosi e chi ne è affetto è a rischio di sviluppare eventi trombotici, che possono comportare disabilità, perdita degli arti e decesso. La terapia antitrombotica raccomandata dalle attuali Linee Guida per i pazienti affetti da coronaropatie (CAD) e arteriopatie periferiche (PAD) è l’impiego di antiaggreganti piastrinici che, però, non risultano sufficienti, in quanto le percentuali di eventi cardiovascolari risultano elevate. Per questo i pazienti cardiovascolari sono stati trattati con rivaroxaban al dosaggio vascolare di 2,5 mg due volte/die più aspirina 100 mg una volta/die; questo mix ha ridotto il rischio combinato di ictus, infarto del miocardio e morte per cause cardiovascolari del 24%, in pazienti con coronaropatie e/o arteriopatie periferiche croniche (Studio COMPASS). Inoltre, nelle popolazioni di pazienti con arteriopatie periferiche si è avuta una significativa riduzione di eventi maggiori, che hanno interessato gli arti e tutte le amputazioni maggiori da causa vascolare (-70%).
“Gli antiaggreganti piastrinici come l’acido acetilsalicilico e gli inibitori del recettore P2Y12 (ad esempio clopidogrel e ticagrelor) bloccano l’azione delle piastrine per contatto con il collagene sulla parete del vaso ma non bloccano l’attivazione diretta delle piastrine da parte della trombina”, dichiara il prof. Francesco Dentali, Direttore della Medicina Generale dell’Ospedale di Luino. “Per questo, l’impiego di un farmaco che inibisce la formazione della trombina, in monoterapia, o in associazione a un antiaggregante piastrinico, può dare origine a una più efficace inibizione della trombosi rispetto a una strategia terapeutica che prevede il solo impiego di terapia antiaggregante piastrinica. Rivaroxaban – conclude Dentali – è il primo anticoagulante orale non antagonista della vitamina k ad essere valutato in questi pazienti ad alto rischio, con risultati sorprendenti.”