Quanto viene “trascurato” il cuore durante la pandemia da coronavirus?

Nella fase acuta della pandemia (febbraio-aprile), in tutto il mondo si è assistito ad una drastica riduzione degli STEMI (Infarto miocardico acuto con aumento delle troponine). In Spagna così come in Lombardia, in Canada, in Inghilterra e negli Stati Uniti, tale calo è arrivato anche al 70-80% rispetto all’epoca pre-pandemia. I cardiologi interventisti, intervistati a livello nazionale durante la pandemia, hanno potuto constatare una sorprendente riduzione dei ricoveri per infarto che in media superava il 50% ed arriva ad oltre il 60% per gli STEMI. Al S. Giovanni di Roma, ad esempio, la riduzione delle diagnosi di infarto ha sfiorato il 60%. L’ipotesi che il virus fosse in qualche modo protettivo, stabilizzando la placca, non aveva plausibili presupposti biologici. I pazienti, terrorizzati dall’idea di recarsi ad un pronto soccorso per evitare il contagio, non andavano in ospedale, provocando un ritardo nei ricoveri, sovente al di fuori della tempistica necessaria per effettuare un’angioplastica primaria. In questo periodo è stato rilevato un aumento dei casi di infarto a coronarie apparentemente indenni. È possibile che il rilascio di citochine infiammatorie possa agire non solo a livello polmonare ma anche in altri distretti, tra cui il cuore. Molti studi hanno documentato delle trombosi a livello non solo dei capillari peri-alveolari, ma anche nelle arterie polmonari e carotidee. Non si può escludere un’azione simile anche nei vasi coronarici.

Secondo dati recenti, circa 1 paziente su 5 affetto da COVID-19 può avere manifestazioni cardiache con un danno miocardico caratterizzato dal significativo incremento della troponina. È certo elemento di preoccupazione il dato del marcato aumento della mortalità in presenza di danno cardiaco. Uno studio anatomo-patologico del miocardio diretto dalla prof.ssa Eloisa Arbustini del Policlinico di Pavia, ha offerto importanti informazioni sull’interessamento cardiaco dell’infezione da COVID, dimostrando che anche il cuore può pertanto essere coinvolto, analogamente ad altri organi, tra cui rene, fegato, tratto gastroenterico, cute e strutture nervose. Attenzione anche sull’incremento di ischemia cerebrale da occlusione di grossi vasi in pazienti giovani colpiti da COVID-19 e spesso senza rilevanti fattori di rischio. Si è parlato di casi di ischemia cerebrale acuta da occlusione di grossi vasi in soggetti giovani, trattati con procedura endovascolare di trombectomia. Riguardo ai farmaci, il cortisone si è dimostrato senz’altro efficace, come evidenziato da un ampio studio randomizzato su 6mila pazienti; riduce la mortalità del 17% e con essa il tempo di ricovero. Lo stesso per il Remdesivir che inibisce l’enzima che copia il RNA virale e come conseguenza la replicazione del virus. Ha ridotto la mortalità e con essa la durata del ricovero del 16% nei pazienti gravi e sottoposti a ventilazione.

Anche l’uso dell’eparina nel COVID-19 sembra apportare un beneficio attraverso vari meccanismi. Rimangono dei punti interrogativi riguardo i dosaggi da utilizzare. Questi potrebbero essere aumentati in profilassi nei pazienti con D-dimero (ad indicare trombosi) al momento del ricovero, nei pazienti obesi o nei soggetti con peggioramento dell’insufficienza respiratoria. Secondo un panel di esperti a livello internazionale, l’International Society on Thrombosis and Haemostasis, tutti i pazienti ricoverati per COVID-19 devono essere trattati con eparina a basso peso molecolare (EBPM) a dosaggio profilattico sempre che non esista come controindicazione un basso livello di piastrine, aspetto che si può verificare nell’infezione da Covid. Non risultano invece efficaci l’idrossiclorochina e il Lopinavir/ritonavir, un inibitore dell’enzima HIV proteasi, coinvolto nella produzione di particelle virali. Il Tocilizumab, farmaco impiegato nella cura dell’artrite reumatoide, sembra di utilità ma i dati non sono ancora sufficientemente convincenti. Il farmaco blocca il recettore proteico Il-6, coinvolto nella infiammazione. Secondo uno studio retrospettivo il farmaco riduce la mortalità e le complicazioni respiratorie che richiedono l’impiego della ventilazione. L’impiego del plasma di convalescenti è stato studiato in un solo studio randomizzato. Il trial era piccolo e includeva solo 103 pazienti trattati con plasma, 14 giorni dopo l’inizio dei sintomi. Non si sono notate differenze relative alla mortalità, mentre si è osservato un calo significativo dei livelli del virus.

Infine gli ace-inibitori o sartani non sono risultati pericolosi. All’inizio della pandemia da COVID 19 molto clamore è stato sollevato sul possibile ruolo degli ACE inibitori e degli inibitori dei recettori dell’angiotesina, i cosiddetti sartani, nel favorire sia la comparsa dell’infezione che il peggioramento del quadro clinico. Tale sospetto aveva come presupposto fisiopatologico l’aumentata produzione, indotta da questi farmaci, del recettore ACE 2, porta d’ingresso del virus all’interno delle cellule. Studi pubblicati, 2 sul New England Journal of Medicine e 1 su JAMA Cardiology, erano a favore dell’atteggiamento conservativo inizialmente assunto, assolvendo di fatto ACE inibitori e sartani. I cardiologi hanno dibattuto di questi argomenti a Firenze durante la XXXVII edizione del Congresso Conoscere e Curare il Cuore.