
Tremore a riposo, rigidità, instabilità posturale, lentezza dei movimenti automatici, depressione e lentezza nel parlare. Sono tra i principali sintomi associati al Parkinson, “malattia del movimento” causata dalla degenerazione di una zona molto limitata dell’encefalo, la sostanza nera (substantia nigra), che produce la dopamina e aiuta a coordinare l’attività motoria. Dopo la malattia di Alzheimer, il Parkinson è la malattia degenerativa più comune: “È certamente una patologia molto diffusa, anche se mettere insieme da punto di vista dell’impegno e della gravità l’Alzheimer con la malattia di Parkinson è, a mio parere, improprio”, afferma il dott. Giuseppe Frazzitta, responsabile del Gruppo di Neuroriabilitazione SNO, introducendo il LXII Congresso Nazionale della Scienze Neurologiche Ospedaliere, in programma a Firenze dal 27 al 30 settembre 2023, in un’intervista rilasciata all’agenzia Dire. “Questo perché la malattia di Alzheimer – spiega – interessa la corteccia cerebrale, mentre il Parkinson esclusivamente la sostanza nera.”
Oggi sono circa 300mila le persone che in Italia convivono con la patologia, la cui incidenza è aumentata negli ultimi 30 anni: “Ci sono 2 motivazioni”, continua Frazzitta. “La prima è che la popolazione è invecchiata, e quindi ha una maggiore possibilità di svilupparla; la seconda è che sono aumentate le diagnosi, questo perché fino agli anni ’70/’80 la comparsa di un lieve tremore o di un rallentamento motorio in una persona anziana della famiglia veniva considerata una normale evoluzione della sua vita e spesso la malattia non veniva diagnosticata. Oggi il numero totale dei pazienti insomma aumenta a fronte di una situazione globalmente stazionaria.”
Il Parkinson colpisce prevalentemente l’anziano, ma non è una malattia dell’anziano: “Non lo è mai stata in senso stretto”, prosegue Frazzitta. “Il Parkinson è stato descritto a Londra per la prima volta (nello studio An Assay on the Shaking Palsy nel 1817, quando l’aspettativa di vita era di 39 anni. Generalmente, l’esordio è tra i 45-55 anni ma, poiché di questa malattia non si muore, la totalità dei pazienti arriva anche in età avanzata. È per questo – dichiara – che nel nostro immaginario pensiamo che sia una malattia dell’anziano. Nel paziente può iniziare a comparire un lieve tremore, e questo accade nel 50% dei pazienti. Ma la cosa più frequente è che siano i familiari del paziente stesso ad accorgersi di movimenti più lenti o di un piede che magari ‘striscia’ un po’. Spesso – continua – il paziente non si accorge di queste modifiche perché avvengono molto lentamente e non sono di grande impatto sulla sua situazione clinica generale.”
FATTORI DI RISCHIO
“Il fattore di rischio numero 1 è lo stress”, dichiara Frazzitta. “Tutti i pazienti con Parkinson hanno degli eventi stressanti maggiori nell’immediatezza della comparsa dei sintomi della malattia. Quindi certamente lo stress svolge un ruolo fondamentale. Poi naturalmente si deve avere una predisposizione genetica, ma questo vale per tutte le malattie. Tra i fattori che possono determinare un aumento del rischio di insorgenza della malattia, anche l’esposizione a tossine esogene come pesticidi, metalli e prodotti chimici industriali, oppure lo stile di vita (dieta e fumo). L’unica cosa certa è che sappiamo che i pesticidi o alcune droghe facilitano il danno a carico della sostanza nera, ma questa condizione da sola non è sufficiente. Lo stesso discorso si può fare per chi fuma 1 pacchetto di sigarette al giorno, senza mai sviluppare un tumore al polmone; ci vuole sempre una predisposizione.”
“Purtroppo, non abbiamo una terapia preventiva, cioè un modo di fare una diagnosi precoce tale per cui poi riusciamo a bloccare l’evoluzione della degenerazione”, afferma Frazzitta. “Quando il paziente inizia ad avere dei sintomi, di fatto la degenerazione è già completata: i sintomi compaiono quando il 70% della sostanza nera è andata già distrutta. Anche gli studi più recenti che sono stati fatti con l’utilizzo di anticorpi monoclonali per eliminare le proteine dell’alfa-sinucleina, che è stata imputata a torto o ragione di essere una delle responsabili della malattia, si sono rilevati non modificare assolutamente l’evoluzione dei sintomi.”
Al momento non esistono quindi farmaci in grado di far regredire la malattia. Tuttavia, spiega Frazzitta, l’attività fisica può avere un ruolo importante, soprattutto se personalizzata: “Il protocollo Multidisciplinar Intensive Rehabilitation Treatment MIRT – che prevede un approccio riabilitativo multidisciplinare nei pazienti affetti da malattia di Parkinson – si è rivelato efficace nel ridurre la progressione dei sintomi motori, nel migliorare l’autonomia personale e la qualità di vita dei malati”, afferma. “Abbiamo dimostrato che grazie ad un approccio multidisciplinare, ossia con un intervento di diverse figure (tra cui il Fisioterapista, il Logopedista e ovviamente il Neurologo), si rallenta l’evoluzione dei sintomi, ossia il peggioramento del quadro motorio. E questo sia nelle forme iniziali di malattia sia in quelle intermedie.” Fino agli anni Settanta, si pensava che il cervello, una volta sviluppato, non fosse più in grado di modificarsi, “ma questo è stato ampiamente smentito, anche da Rita Levi Montalcini”, aggiunge ancora Frazzitta. “Fondamentale, allora, una riabilitazione del movimento: MIRT dimostra che se un paziente pratica almeno 1 ora di fisioterapia tutti i giorni, questa attività blocca l’evoluzione dei sintomi. Nato nel 2000 e pubblicato, tra altre, anche su Nature Reviews Neurology, il metodo MIRT è stato testato su circa 2mila pazienti, ed è stato ampliamento replicato con nostra grande soddisfazione sia in Cina sia a Tel Aviv. Non solo: è proprio su questo approccio – dichiara – che si basano le linee guida dell’International Parkinson and Movement Disorder Society per prendere in carico i pazienti in maniera multidisciplinare e per organizzare i centri Parkinson.”