Le persone che contraggono il Covid-19 avrebbero un rischio maggiore di sviluppare il diabete fino a 1 anno successivo, rispetto a coloro che non hanno mai avuto la malattia. A rilevarlo, uno studio statunitense pubblicato su The Lancet Diabetes & Endocrinology. I ricercatori hanno esaminato le cartelle cliniche di oltre 180mila soggetti presenti nel database sanitario dello US Department of Veterans Affairs con una diagnosi di Covid-19 sopravvissuti per almeno 30 giorni successivamente alla malattia in un periodo compreso tra marzo 2020 e settembre 2021, con oltre 4milioni di controlli contemporanei Covid-19-negativi visitati nel 2019, e un gruppo di controllo storico, anch’esso di oltre 4milioni di individui nel 2017. Il follow-up medio è stato di circa 1 anno.
Dall’analisi dei dati è emerso che le persone che avevano avuto Covid-19 grave in terapia intensiva o anche solo in ospedale, presentavano circa il 40% in più di probabilità di sviluppare il diabete fino a 1 anno dopo rispetto invece ai soggetti appartenenti ai gruppi di controllo.
“Se i pazienti hanno una precedente storia di Covid-19, questo è un fattore di rischio per il diabete, e dovrebbero senz’altro essere sottoposti a screening”, dichiara Ziyad Al-Aly, della Veterans Administration, St. Louis Health Care, Missouri, coautore dello studio. “È ancora prematuro elaborare delle linee guida, ma è decisamente evidente che il Covid-19 aumenta il rischio di diabete fino a 1 anno dopo; si tratta di un rischio piccolo, ma non trascurabile.” Delle persone con Covid-19 che hanno evitato il ricovero, 8 persone in più su 1.000 studiate avevano sviluppato il diabete entro l’anno successivo rispetto ai soggetti rimasti negativi.
Altri studiosi sottolineano tuttavia i potenziali limiti della ricerca, che ha coinvolto soggetti statunitensi per lo più bianchi in età avanzata, molti dei quali con valori elevati di pressione sanguigna e in sovrappeso, fattori che di per sé espongono a un rischio maggiore di sviluppare il diabete, come sottolinea Gideon Meyerowitz-Katz, epidemiologo dell’Università di Wollongong, Australia: “Quel rischio è molto più basso nei giovani e più alto in alcuni altri gruppi etnici”.