Pubblicati su Nature i risultati di un ampio progetto internazionale mirato a conoscere le basi genetiche della schizofrenia, grave disturbo psichiatrico che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, colpisce circa 1 persona su 300 in tutto il mondo. Il progetto è stato coordinato dal Psychiatric Genomics Consortium, consorzio internazionale che ha coinvolto più di 100 istituzioni di 45 nazioni, tra cui anche l’IRCCS San Raffaele. “Parliamo del più grande studio genetico mai condotto sulla schizofrenia”, spiega Stefano Bonassi, direttore del Servizio di Epidemiologia Clinica e Molecolare dell’Istituto San Raffaele e professore di Igiene e Medicina Preventiva presso l’Università San Raffaele Roma. “È stato analizzato il DNA di oltre 77mila persone affette da schizofrenia e di circa 243mila persone sane, utilizzate con gruppo di controllo. Questo sforzo enorme ha permesso di identificare un gran numero di geni specifici che potrebbero assumere ruoli importanti nell’eziologia della malattia.”
In particolare lo studio dei genomi dei soggetti coinvolti ha permesso di individuare associazioni tra varianti geniche e sviluppo della schizofrenia in ben 287 loci genetici distinti. Sebbene il numero di varianti genetiche coinvolte nella schizofrenia sia elevato, è stato ora dimostrato come queste interessino in prevalenza i geni espressi nei neuroni, indicando queste cellule come il sito più importante della patologia. “Ricerche precedenti hanno mostrato associazioni tra schizofrenia e molte sequenze di DNA, ma raramente è stato possibile collegare i risultati a geni specifici”, afferma il prof. Michael O’Donovan, della Divisione di Medicina Psicologica e Neuroscienze Cliniche dell’Università di Cardiff, co-autore principale della ricerca. “Il presente studio non solo ha aumentato notevolmente il numero di tali associazioni, ma ora siamo stati in grado di collegare molte di esse a geni specifici, un passo necessario in quello che rimane un difficile viaggio verso la comprensione delle cause di questo disturbo e l’identificazione di nuovi trattamenti.”
“Il fatto di avere contribuito a tale ricerca con pazienti assistiti nelle strutture del Gruppo San Raffaele – conclude Bonassi – è motivo di orgoglio e ha un valore intrinseco anche per i nostri assistiti e per le loro famiglie, consapevoli di poter contribuire fattivamente alla ricerca più avanzata sulla patologia che li riguarda così da vicino.”