Cosa vuol dire vivere con la fenilchetonuria oggi? E quali sono le problematiche ancora aperte? Alcune risposte arrivano dalla ESPKU International Conference, conclusasi nei giorni scorsi a Izmir, Turchia. Ad oggi non si può più parlare di una malattia solo pediatrica. Anzi, i pazienti adulti in Italia e in Europa sono ormai la maggioranza grazie soprattutto allo screening neonatale esteso, in Italia obbligatorio per legge dal 1992. Nel nostro Paese si contano all’incirca 4mila pazienti, ma è difficile avere una stima precisa perché manca un registro nazionale. La fenilchetonuria (PKU) è un raro difetto metabolico ereditario dovuto a mutazioni del gene che codifica per un enzima epatico, la fenilalanina idrossilasi (PAH), necessario per il metabolismo della fenilalanina (Phe), un aminoacido essenziale presente nella maggior parte degli alimenti contenenti proteine. Se non adeguatamente trattata, la patologia comporta un grave e irreversibile ritardo mentale, oltre a importanti disabilità cognitive.
“La fenilchetonuria è certamente una malattia con cui si diventa adulti; molti pazienti oggi hanno anche 40 o 50 anni. Il loro referente medico deve quindi necessariamente avere competenze diverse rispetto a quelle della medicina pediatrica, che rientrino a pieno titolo nell’ambito della medicina della seconda e della terza età”, afferma Vincenzo Leuzzi, ordinario di Neuropsichiatria infantile all’Università La Sapienza di Roma e Responsabile della UOC di Neuropsichiatria Infantile presso il Policlinico Umberto I di Roma. “Sappiamo che i bambini e gli adulti con fenilchetonuria sono abitualmente seguiti da pediatri, che sono in sostanza specialisti in medicina interna del bambino, mentre non c’è una corrispettiva figura per i pazienti adulti che racchiuda tutte le competenze necessarie per seguire questi pazienti. Opzioni formalmente possibili sono il medico internista, o l’endocrinologo, o forse, con riferimento al fatto che si tratta di una malattia neurologica, il neurologo.”
“Questa malattia – prosegue Leuzzi – può avere un forte impatto sulla qualità di vita del paziente adulto in relazione all’emergenza di disfunzioni neurologiche ‘minori’ che ne condizionino l’inserimento lavorativo (difficoltà di concentrazione, irritabilità) e sociale (disturbi psichiatrici) e che derivano dal non soddisfacente controllo metabolico. Questo è affidato al rapporto che la famiglia prima e l’adulto dopo intrattengono con il proprio medico di riferimento. Ancora una volta la figura di uno specialista che sappia coniugare il percorso individuale di ogni paziente con le peculiarità della malattia è fondamentale.”
Le stesse necessità emergono anche lato paziente: i dati quantitativi di una recente ricerca realizzata da Atstrat dal titolo PKU&ME, promossa da BioMarin, ha messo in luce l’importanza per i pazienti di alcuni aspetti fondamentali: ad esempio, di non avere un centro specialistico di riferimento. Il 52% degli intervistati lamenta il fatto che, pur essendo adulti, sono ancora in carico ai reparti pediatrici. Inoltre, per questi pazienti l’adolescenza rappresenta un momento critico perché si passa più tempo fuori dalla famiglia e si comincia a sperimentare comportamenti non costanti nella dieta (54% degli intervistati). La grande maggioranza dei partecipanti alla ricerca (58%) chiede a gran voce la possibilità di partecipare a eventi insieme ad altre persone con PKU ed esperti per scambiare informazioni, consigli e idee.
“Le criticità che abbiamo evidenziato includono la necessità di avere più spazi e specialisti dedicati agli adulti, non solo nei centri ospedalieri dedicati, ma anche tramite un coordinamento nazionale – di tipo federativo o associativo – che organizzi e armonizzi gli sforzi delle Associazioni locali e apra ai pazienti la possibilità di un confronto nazionale”, dichiara Niko Costantino, referente per l’Associazione Cometa A.S.M.M.E. per la PKU. “I centri dedicati alla PKU vengono ad essere di fondamentale importanza allorché il paziente adolescente vive la transizione verso l’età adulta, transizione identificata come momento cruciale in cui cambia l’immagine di sé e degli altri, mettendo in serio pericolo l’aderenza alla terapia, che nella maggior parte dei casi risulta, per periodi variabili, compromessa.”