
Il virus dell’Epatite C (HCV) è una delle principali cause di morbilità e mortalità correlate al fegato in tutto il mondo. Si stima che 71milioni di persone siano affette da infezione cronica da virus dell’epatite C; di queste, un numero significativo progredisce sino a giungere alla cirrosi o al cancro del fegato. In Italia sono stati avviati oltre 191mila trattamenti e nella stragrande maggioranza dei casi si sono conclusi con successo. Ma a preoccupare sono le circa 250mila persone che hanno contratto l’infezione e possono anche non saperlo. Un mondo “sommerso” fatto di indigenti, detenuti, tossicodipendenti e immigrati, solo per fare qualche esempio, ma anche di soggetti over60 poco coscienti del grado di gravità della malattia e delle possibilità di cura. Negli ultimi 3 anni, intanto, è profondamente mutato lo scenario della terapia delle malattie epatiche da virus C e, con la disponibilità dei nuovi farmaci ad azione antivirale diretta, è oggi possibile curare la maggior parte dei pazienti in poche settimane con terapie che consentono la definitiva eliminazione del virus in circa il 97% dei casi, a prescindere dallo stadio della malattia. Un grande risultato per la ricerca clinica, questo, che ora implicherebbe un nuovo modello qualora i costi della terapia ricadessero a completo carico delle Regioni.
Anche di questo si è parlato nei giorni scorsi a Roma in occasione della conferenza stampa “Alleanza Contro l’Epatite 2019”, promossa dalle società scientifiche Aisf (Associazione Italiana per lo Studio del Fegato) e Simit (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali), con il patrocinio di EpaC Onlus: “Se i costi della terapia passassero dal fondo per i farmaci innovativi a completo carico delle Regioni – dichiara il prof. Massimo Galli, presidente Simit – le stesse si troverebbero a sostenere ulteriori costi diretti, senza che si sia ancora investito a sufficienza per l’emersione del sommerso, eccezion fatta per le società scientifiche che hanno intrapreso campagne di comunicazione. Bisogna ricordare che il grosso del sommerso risiede nelle fasce d’età al di sopra dei 50 anni, nelle quali si è fino ad oggi fatto veramente molto poco”. Altra “spina” di politica sanitaria che allarma la comunità scientifica sull’Epatite C è anche la “presunta” equivalenza dei farmaci: “Ci si potrebbe infatti dover confrontare con una possibile equivalenza dei farmaci in corso di valutazione da Aifa – prosegue Galli – La disponibilità in Italia di 3 diversi trattamenti farmacologici ha consentito in questi anni di scegliere e utilizzare lo schema terapeutico più adatto a ciascun paziente. L’eventuale affermazione di equivalenza tra le combinazioni farmacologiche pangenotipiche disponibili toglierebbe ai medici la discrezionalità necessaria per attuare la scelta terapeutica migliore per ciascun paziente”. Anche secondo il dott. Salvatore Petta, segretario di Aisf, in questo senso bisogna prestare “molta cautela”, poiché tali regimi contengono “principi attivi appartenenti a classi terapeutiche differenti, hanno profili di sicurezza diversi in alcune sottopopolazioni di pazienti e vengono somministrati con schemi terapeutici che differiscono per durata in funzione del genotipo virale di Hcv e della severità della malattia di fegato”. Pertanto, “l’applicazione in tale contesto clinico del principio di equivalenza, qualora approvata da Aifa, potrebbe inficiare quanto di eccellente fatto finora, con potenziale ricaduta negativa sia dal punto di vista clinico sia farmaco-economico”. Da parte delle istituzioni sembra però esserci “massimo impegno ad ascoltare le esigenze di clinici e pazienti”, sottolinea Raffaele Mautone, componente della XII Commissione Igiene e Sanità del Senato: “Fino ad oggi abbiamo supportato gli sforzi della ricerca e l’implementazione delle nuove terapie; auspichiamo ora un prosieguo di questo percorso, sia per la salute dei singoli sia per la Sanità pubblica”.