
Il processo patologico che danneggia il fegato dei pazienti affetti da COVID-19 è un’alterazione della vascolarizzazione, dovuta all’eccessiva produzione dell’interleuchina IL-6, una citochina che regola la risposta immunitaria dell’organismo. Le analisi su modello animale nei laboratori USA hanno riprodotto per la prima volta l’intero processo, confermando così il ruolo cruciale della citochina IL-6 e la descrizione del meccanismo di azione elaborato dai ricercatori del Papa Giovanni XXIII sulla base dell’analisi dei dati e delle radiografie derivanti da pazienti deceduti a Bergamo a causa del COVID-19 nel 2020.
I risultati dello studio sono stati pubblicati sul Journal of Hepatology. La collaborazione tra i ricercatori dell’Università di Yale, New Haven, Cunnecticut (USA) e l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, ha consentito per la prima volta di analizzare e riprodurre il meccanismo patologico con cui il virus causa un danno del fegato nei malati di COVID-19. Questo studio conferma il ruolo chiave della citochina IL-6 e della endoteliopatia, ovvero l’infiammazione delle pareti dell’endotelio che riveste i vasi sanguigni, responsabile del danno epatico associato a forme gravi e mortali di COVID-19. In particolare, il virus SARS-CoV-2 induce le cellule dell’endotelio dei vasi sanguigni che irrorano il fegato a produrre una proteina chiamata interleuchina IL-6, che in situazioni normali agisce con funzione di regolazione dei processi immunitari. Quando la sua produzione è eccessiva, può portare a stati infiammatori anomali. Nel caso del COVID-19, questa tempesta porta allo stato infiammatorio (endoteliopatia) e alla coagulazione del sangue all’interno dei vasi.
Per arrivare a questi risultati sono stati valutati i campioni istologici di fegato relativi a 43 pazienti deceduti all’Ospedale di Bergamo nella primavera del 2020. Le autopsie con prelievo di materiale istologico erano state effettuate a Bergamo durante la prima ondata dal direttore del Dipartimento di Medicina di laboratorio, Andrea Gianatti, e dal collega anatomopatologo, Aurelio Sonzogni. I dati biochimici ed umorali dei pazienti selezionati sono stati analizzati e valutati da Maria Grazia Alessio, Giulia Previtali e Michela Seghezzi, della Medicina di Laboratorio, del Papa Giovanni XXIII. Il direttore, Sandro Sironi, docente all’Università di Milano-Bicocca alla post Graduate School in Radiologia Diagnostica, insieme ai radiologi Clarissa Valle e Pietro Bonaffini sono tra gli autori che hanno collaborato allo studio. Si tratta al momento del primo studio pubblicato su modello animale che coinvolge il più grande campione numerico di tessuti umani provenienti da pazienti deceduti per infezione da COVID-19.
“I marcatori dell’attivazione delle cellule endoteliali e delle piastrine – fattore VIII, gli enzimi fibrinolitici, D-dimero, l’antigene del fattore di von Willebrand (vWF) – hanno indicato un legame tra danno epatico, coagulopatia ed endoteliopatia”, spiega Sonzogni. “La citochina IL-6, attraverso un processo detto di ‘trans-segnalazione’, provoca l’aumento di anticoagulanti (fattore VIII, vWF) e infiammatori. Si genera anche un aumento delle piastrine nelle cellule dell’endotelio. Abbiamo rilevato l’azione inibitoria da parte dell’inibitore naturale gp130, dal farmaco Ruxolitinib, che era stato somministrato in alcuni di questi pazienti, e da particolari anticorpi (STAT1/3 siRNA). Abbiamo trasmesso questa successione di dati e questo modello ai colleghi di Yale, che lo hanno sottoposto a verifica in laboratorio, ottenendo una conferma di quanto abbiamo ipotizzato.”
Uno dei più grandi studi clinici ad aver valutato il rapporto tra danno epatico e SARS-CoV-2 aveva rilevato che su 2.273 pazienti il 45% mostrava un danno epatico lieve, il 21% moderato, il 6,4% grave. I pazienti con danno epatico acuto erano a maggior rischio di ricovero in terapia intensiva (69%), intubazione (65%), terapia renale sostitutiva (33%) e mortalità (42%). Il ruolo dell’infiammazione delle cellule endoteliali era già stato ipotizzato, ma nel caso del fegato non era mai stato dimostrato su tessuto. Ora, lo studio degli scienziati italiani e statunitensi torna a porre l’accento sul ruolo dell’endoteliopatia come principale causa di danno epatico rispetto alla coagulopatia, proprio perché sarebbe la causa di quest’ultima. Questa conclusione suggerisce che l’identificazione precoce dell’endoteliopatia e le strategie terapeutiche per ridurne la accelerazione infiammatoria potrebbero migliorare il trattamento di malattia da COVID-19 grave. Lo studio conferma inoltre che l’IL-6 può essere più generalmente un potenziale bersaglio per la terapia mirata del COVID-19 anche perché il danno risulta essere ubiquitario, cioè diffuso nell’organismo, non limitato al solo polmone. È la strada già intrapresa da alcuni studi clinici, che si stanno concentrando sulla ricerca di farmaci efficaci come inibitori dell’IL-6. “Dal Papa Giovanni – dichiara Fabio Pezzoli, direttore sanitario dell’ASST Papa Giovanni XXIII – arriva ancora una volta un contributo allo sforzo collettivo della comunità scientifica internazionale per conoscere e quindi combattere in maniera efficace questa malattia.”